Cara Sybilla, ho presente cosa intendi. É come se la nostra mente progettuale fosse lì attiva e pronta a scalpitare ma il nostro corpo, le nostre emozioni fossero ingessate, inchiodate a terra, imprigionate nel cemento.
Ed é frustrante e doloroso.
Ma più si tira, più si cerca di sbrigliarsi da quei blocchi e più si stringono a noi e più fanno male.
Essere in lotta con se stessi é sempre una condizione di perdita, qualunque sia il risultato.
Se riesci a strappare potresti lacerare qualcosa, se accetti l'immobilitá perdi spinta vitale.
Non c'è una soluzione univoca in questo, ognuno deve tararla su di sé.
Ma il primo passo é deporre le armi, non per arrendersi, ma per incontrare te stessa.
La tua parte che scalpita e la tua parte immobile, spaventata, devono dialogare e trovare dei compromessi per potersi esprimere. Ascoltale e rispettare entrambe e gli sforzi che devi fare non devono essere rivoluzionari ma piccoli, anche se apparentemente insignificanti.
Se mi rompo una gamba, non posso pensare, appena tolto il gesso, di iscrivermi ai mondiali di sci.
Esempio amplificato ma che rende il concetto.
La gamba va massaggiata, riallenata, curata. Non va ignorata come se non avesse nulla, cominciando a correre. Rischio solo di inciampare, cadere, farmi male e pensare che con quella gamba non farò più nulla.
Quando davanti vediamo un muro, e non sentiamo le forze per scavalcarlo, il pensiero più immediato é la resa, e il suicidio é la resa definitiva. Ma in ogni muro c'è una crepa, un mattone estraibile, una porta, una fessura. Bisogna cercare quella, guardarmi attraverso e trovare gli strumenti per aprirla e passare i attraverso. Ma con tutta la nostra interitá.
Se hai bisogno scrivici ancora!
Un caro saluto...